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A LORETO


Salimmo il colle di Loreto in un giorno rovente di Luglio, sotto le vampe del sole meridiano, nel barbaglio bianco della via che bruciava, assordati dallo stupido ed ostinato frinire delle cicale furibonde. I gelsi spogliati, le stoppie arse e gialle e le siepi immobili sotto un velo di polvere densa, parevano attendere la morte, immersi nel profondo torpore dell’agonia. Le sole vestigia della vitalità umana apparivano lassù, in cima al colle, dove si alzava arcigna l’abside merlata del tempio dominatore, come una rocca fortificata contro un nemico invisibile, minaccia di offese e di sangue contro l’insorgere delle ribellioni. Pareva che sotto alla croce stesse in agguato il cannone e che le campane sonassero a stormo. Non ci appariva il tranquillo aspetto della fede, ma il viso ferreo, il cupo terrore della forza.

E salendo sempre, ogni passo era una rivelazione ed un incanto. Prima l’ondeggiar sinuoso delle