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302 | Brani di vita |
del ricevimento ci era stata comunicata come un rito solenne e formidabile da accostarcisi trepidanti e reverenti; ma eravamo troppo piccini per raccogliere il senso delle astrazioni e capire il significato dei simboli. Il solo aspetto della realtà ci colpiva senza incuterci timore. Il Sovrano non era per noi che un dispensatore di grazie e subito pensammo di chiedergliene una.
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Ma quale? I pareri furono molti e la discussione vivace, finchè vinse il partito di domandargli l’uscita dal Collegio per sei giorni dell’anno. Solo per due giorni potevamo tornare a casa, anzi a chi pernottasse fuori era minacciata l’espulsione.
In quei tempi, la miseria dell’insegnamento e la difficoltà delle comunicazioni costringevano le famiglie agiate dei paesi e delle città minori a mettere i figli in Collegio perchè imparassero pur qualche cosa e, siccome i Gesuiti, stimati il modello degli educatori, prescrivevano e praticavano nei Collegi loro l’assoluto distacco dalla famiglia, così la regola era stata copiata anche per noi. Regola buona forse per frati, ma crudele e scellerata per noi, poveri bimbi, che nel castigo dei primi errori, nella amaritudine dei primi dolori, ricordavamo e sospiravamo le carezze materne. Perciò pensammo di chiedere un po’ di larghezza nel lasciarci uscire. Io che, fino d’allora cominciavo a patire di belle lettere, ebbi l’incarico di scrivere la