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Finta battaglia 219

Un sergente, nel più canzonatorio dialetto veneto, mi accolse dicendo: — Ah, la xe quà anca ela? Se i bianchi i la chiapa, la se farà fusilar. — Non ci avevo pensato. Infatti che parte ci facevo io? La spi.... No! che brutta parola!... Facevo, o piuttosto avevo fatto la guida. In ogni modo il sergente aveva ragione. Ma che bisogno c’era di dirmelo?

Sarà stata una sciocchezza, ma lo scherzo del sergente fu come una doccia fredda sui miei entusiasmi bellicosi. Rimasi alla coda e finii col mettermi a sedere all’ombra, a dispetto degli squilli della tromba.

— Vadano pure — pensavo. — tanto la strada la sanno anche loro. La toga cede alle armi. Lo so che i bianchi non fucileranno nessuno, ma potrei trovare qualche ufficiale dei loro che mi domandasse che cosa c’entro io. Che potrei rispondere? O una sciocchezza o star zitto. Dunque vadano pure. — Ma degli entusiasmi passati m’era però in fondo rimasto qualche cosa, m’era rimasto almeno il disprezzo della morte, poichè accesi un sigaro della Regìa.

Così disteso, colla testa all’ombra ed i piedi al sole, seguivo tuttavia il procedere delle fucilate e, conoscendo bene i luoghi, capivo di dove venivano. Brontolavo: — Eccoli che scendono. Eccoli fuori dalle macchie. Eccoli pel viottolo della Madonna del Bosco. Sono oramai alla casa! — Dopo un poco di silenzio sentii distintamente i fuochi di drappello. Era la catastrofe e tesi l’orecchio per sentire il grido dell’assalto, il Savoia decisivo. Squillarono