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6 | Brani di vita |
consigli. Avrei scaraventato subito il volume dell’Aleardi in faccia al saggio Mentore in persona. Non si è giovani per niente.
In quell’anno venne fuori il Levia Gravia del Carducci. Non conoscevo l’autore nemmeno di vista e, quando lo conobbi, mi diede sempre tanta soggezione, che ci sono voluti dieci anni di amichevoli ed intime relazioni prima di decidermi al tu confidenziale. Anzi fu lui che, poveretto, cominciò col tu, ed anche nei suoi ultimi giorni, se parlavamo sul serio di letteratura o di storia, mi scappava quel lei riverente. Allora insomma non lo conoscevo e si può anche dire che egli era conosciuto da pochi. Il Levia Gravia non levò gran rumore, un po’ perchè allora non si credeva possibile di far buoni versi dopo il Manzoni ed anzi pareva sfacciataggine provarcisi; poi perchè in quel libro non c’era politica. Ma io lo lessi e, stucco e ristucco di tutta quella devozione rimata che stagnava in Italia, rimasi ammirato di non trovarci dentro i soliti angioli e le solite madonnine. Trovai finalmente il poeta mondo dalla lebbra del sentimentalismo ipocrita che odiavo, trovai finalmente qualche cosa di nuovo, di originale, e non le solite rifritture manzoniane. Fino i metri non erano più quelli del sempiternale — Dormi, fanciul, non piangere — o gli affannosi decasillabi, noiosi nel loro isocronismo come il pendolo dell’orologio. Ma qui non faccio l’autopsia critica del Carducci; dico, solo per dire, che mi colpì subito e, presa la penna, scrissi due o tre colonnini di roba entusiastica certo, ma sconclusionata parecchio.