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In Sacris | 91 |
quotidiana, non immaginano di meglio che un ospizio di poeti invalidi, un convento di frati gaudenti. Io lascio al giocondo curato di Meudon le torri di marmo, le camere dorate, le vesti di porpora, i conviti delicati; io mi contenterei d’esser curato di Monte Calderaro. Ivi riposerei beato e chiuderei gli occhi per sempre in un bel tramonto come questo, guardando al sole, ai monti, al mare lontano, e susurrando soddisfatto: Hoc erat in votis!
Mi vedete? Lassù nel silenzio della montagna, sul praticello che verdeggia davanti alla canonica, c’è un tavolino con alcuni libri ed una bottiglia. Accanto, in comodo seggiolone, siede il reverendo curato, seggo io, coi capelli bianchi e la gota florida posata sulla palma della mano. Oh, come sono lontani i tempi della mia giovinezza, come sono lontane le donne che mi lacerarono l’anima col pretesto di volermi bene! A quei tempi come si combatteva, come si soffriva, o per un diritto o per un amore! Il mondo era una battaglia; il vecchio urtava col nuovo, il privilegio col diritto, l’interesse col dovere, l’equivoco colla verità, e si combatteva. Oh le belle battaglie e i bei colpi! E gli strazi delle sconfitte e il giubilo delle vittorie sante, delle vittorie degli umili, del trionfo dei deboli, della redenzione degli oppressi! Ci dicevano senza fede, e noi per la fede nostra davamo ogni cosa più caramente diletta, e per la fede conducevamo nella mischia anche i nostri figli, la carne della nostra carne, l’anima dell’anima nostra.
Ci dicevano senza amore, e molti di noi per amore