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a prova in che conto si tengano da cui dà a nolo anima e spada. Io vi dico in verità che senza la virtù della pelle dell’Asino non si farebbe niente, e se troppo di me presumo, tu, re, esamina e giudica. Partì egli, che uomini comprati e venduti a cento scudi il paio o poco più, raccolti nel mezzo della strada con la pala, nudriti a spilluzzico, pagati con quattro quattrini il giorno, battuti sovente a panca possano essere mossi da cause tanto solenni? Se Patria e Gloria e Civiltà potessero stillarsi in acquavite di Cognac o in ginepro di Olanda e bersi, capirei ancora io che valessero a tanto, ma finchè questo non accada, negli arringhi marziali non potranno mai levare la mano alla pelle dell’Asino. E nota eziandio alla spontaneità nostra, con la quale diamo la pelle come arnese di guerra, e la paragona con la repugnanza degli uomini, che pure si vantano unici fra gli animali ad avere dato regole all’arte di ammazzarsi fra loro. Uno solo tra gli uomini, e fu Zisksa capitano degli Ussiti, ebbe cuore d’instituire erede della sua pelle una cassa da tamburo; per noi Asini, i tamburi sono eredi ab intestato della nostra pelle.
Tanto spira da me certa guerresca ferocia, che gli uomini prodi sempre mi vollero al fianco in pezzi od intero. Chi fu che mise tanto cuore in corpo al fortissimo Sansone? Dillo tu, re, che lo sai. Chi gli