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capitolo xxi.


l’uomo lo vogliono tutto lì, gli assorbono il cervello senza lasciargliene libero un briciolo; ma intanto ch’egli, medico, scruta col polso in mano il mistero della infermità, o avvocato intende ad accecare con parole la giustizia, o prosseneta a mettere in corpo al mercante per via di panzane una partita di meliga avariata, ecco un alito di vento gli porta un vagito lontano di pargolo, un arpeggio di chitarra, forse anco una sfumatura di odore del fazzoletto che la signora marchesa ha cavato faori per soffiarsi il naso, e la sua mente, rapita via dal polso, dal tribunale e dal granturco, errare pei dominii sterminati dell’Amore.

Però io vi ammonisco, le nuove vicende che sto per esporre davanti a voi si aggireranno sempre intorno all’Amore, pari ai satelliti del sole, che immoto in mezzo a loro li veste tutti della sua luce. Da molto, forse da troppo tempo ho messo da parte Eufrosina, Curio e Filippo, però non crediate mica ch’io me ne sia dimenticato, anzi si volgeva il mio cuore verso cotesto care creature, quantunque volte mi stringeva il bisogno di ricrearmi delle brutte cose e delle bruttissime persone che pullulavano sotto i miei piedi, nella corsa che ho impreso traverso questa società morta e corrotta, e che pure veruno si attenta a seppellire. Andiamo pertanto a trovarli colà dove li abbiamo lasciati. Curio e Filippo giacciono gravemente feriti allo spedale di ***, ed Eu-