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l’altro che rasentava la sponda, e così costringerlo a rallentare il corso e levargli la mano. Nei luoghi spaziosi lottavano con gara più leale e più bella, ma con poco frutto, essendo i piroscafi pari in bontà e i marinari ugualmente capaci. Il capitano dell’ Erebo, sul quale eransi imbarcati Curio e Filippo, stando ritto sopra il terrazzino traverso ai tamburi, si dimenava, gestiva, urlava da spiritato: con voce rantolosa non ismetteva mai di ordinare:

— Fuoco alla caldaia!

I suoi sottoposti, invasi dalla medesima rabbia, buttavano giù senza posa carbone a palate; ma siccome l’emulo capitano della Furia adoperava lo stesso e peggio, non si veniva a capo di nulla: entrambi serpi che mordevano lime, quantunque essi corressero nella fuga infernale da venticinque a ventisette miglia all’ora, per modo che il soverchio moto, trasformando alla vista gli oggetti circostanti, facesse apparire le piante e gli alberi delle due sponde quasi due striscio continue di panno verde. Il capitano dell’Erebo, non avendo altro da rodere, per la rabbia si rodeva le mani; intantochè i passeggeri con terrore avvertivano le faville della cappa del camino cascare a gruppi su certe balle di fieno e di cotone caricate in coperta con pericolo presentissimo, anzi certezza d’incendio; e poichè parve loro, e veramente era, ogni indugio pernicioso, deliberarono mandare alcuni di loro in deputazione