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capitolo xxiii. | 263 |
ci ha aperto le porte del paradiso; e, se vuole, io ci ho notato un’altra differenza: con la schiavitù frusta quotidiana e pane tre volte la settimana, con la libertà, nè frusta nè pane.
— E fìgliuoli ne generaste?
Allora si rizzò su l’altra creatura, che Curio suppose essere femmina, la quale per abbaiare non ebbe mestieri come Ecuba essere trasformata in cagna, e prese a urlare:
— Dodici! dodici! dodici!
— La figliolanza d’Isdrael; e che ne avete fatto?
— Questo è il conto dei miei figliuoli: cinque morirono pel morso avvelenato dei serpenti a sonagli; due ne sbranarono le pantere; tre se li inghiottì la febbre gialla; uno lo impiccarono le facce pallide perchè ruppe il cranio al figliuolo del padrone, che lo frustava senza discrezione; l’ultimo ebbe il cranio spaccato dal padrone; e così finì la chiocciata.
— Era tanto bello il mio Candido! finito di parlare la femmina prese a guaire il negro; il padrone pianse tanto la morte di quel giglio di amore! Si sbatacchiava per terra, si mordeva le mani; credo che se io non lo avessi retto si sarebbe buttato via.
Filippo, intento a guarire Curio dalle sue fantasticaggini di misantropia, osservò:
— Tanto, è inutile che tu vada come i medici a cercare il male col fuscellino; anco dalle anime più buie trapela sempre qualche raggio di amore.