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capitolo xxi.


un pizzicotto delle ceneri, le pose sul palmo della mano, poi ci soffiò sopra e le disperse al vento esclamando:

— Siate maledette in eterno!

Distrutta la prova, l’avvocato di Curio, il quale d’altronde di male gambe procedeva nella difesa, non potè nè anche avvantaggiarlo con la scusa capace solo ad attenuare la colpa; all’opposto, avendola l’imputato addotta nella istruzione del processo e non la potendo provare, gli concitò mirabilmente contro l’animo dei giudici. Il colonnello unico ebbe a sostenere dentro di sè un’aspra battaglia fra il convincimento morale e la mancanza della prova materiale del fatto; nondimeno anche a lui fu mestieri piegare il capo, e comecchè con mano tremante, pure anch’egli depose il voto funesto nell’urna. Curio ad unanimità di voti uscì condannato a morte.

Tali un giorno, certo non tutti, ma troppo più di quelli che potessero sopportarsi, gli ufficiali dell’esercito italiano; e guai a chi si fosse attentato riprenderli: figlio di madre infelice era costui! La sua sorte pari a quella di Atteone, quando ardì contemplare Diana ignuda; i suoi stessi cani gli si avventarono addosso e lo divorarono; — ed io lo so, che provai cani una ciurma di nati nella terra in cui io pur nacqui: a me risparmiarono lo schifo e il ribrezzo di rammentarli, perchè da loro stessi conficcarono i propri nomi in cima alla forca. Né uomo