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capitolo xxi.


Il Fadibonni suo malgrado avvampò. Nella guisa che il sole vicino al tramonto manda l’addio dei raggi vermigli al vertice dei colli, il pudore moribondo tinse coll’ultimo rimasuglio del suo cinabro le gote di costui. Riavutosi alquanto, rispose alterato:

— Dei titoli ne avrei parecchi; ti basti quest’uno: l’altra notte, coricandomi allato a te, misi il mio portafoglio sotto il capezzale. Vana precauzione! La mattina lo rinvenni vuoto, e dentro ci aveva messo... se ben ricordo... o cinquecento o quattrocento lire.

— O bugiardo della forza di mille cavalli; io ci trovai uno da cinquanta, tre da cinque, sei palanche e un doppio soldo...

— Dunque sei tu quella che rubasti? Era cotesto il tuo primo furto?

— Sfido io, o che volevi che campassi di aria? Anche il re per capo d’anno lo ha detto.

— Ma io ho giocato per te... ma io mi sono spiantato per te... ma io mi sono nabissato nei debiti per cagione tua! E mentre io mi affatico a crearti stato di regina, a te basta il cuore per lasciarmi morire di stento? Questo è il tuo amore? Questa la riconoscenza?

— Va’ via, matto; attendi la settimana santa per cantare le lamentazioni. Senti, non buttiamo via il fiato; le lire duecento per lo alloggio non si hanno