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capitolo xxi. |
pena sbirciato il maggiore tenta scansarlo, e questi vie più diritta gli mette addosso la prua; si accostano; si urtano quasi; è chiusa ad evitarsi ogni via.
— Signor Abramino, o che le faccio paura? Non sono mica Attila, io. Si rassicuri, e sappia ch’ella mi è stato sempre simpatico.
— Grazie, caro lei, signor maggiore, grazie.
— O che pensa, che io le porti il broncio perchè ella vuol bene alla mia Giulia?
— Creda, caro signor maggiore...
— Credo, signor Abramino, ch’ella non poteva porre il suo affetto in luogo più degno. — Veda: le sue qualità fisiche sono giudicate dall’universale stupende, maravigliose, anzi divine; eppure, di petto alle sue qualità cormentali sono meno che nulla; e ohimè! dopo aver trovato tanto tesoro mi tocca a lasciarlo; ah! destino infame. Sono fuori di me, e per la passione vado per le vie come smemorato.
— Caro lei, o perchè la lascia?
— Dio, che angoscia! Il mio reggimento sta per essere traslocato in Sicilia, e le enormi perdite che ho fatto al gioco mi tolgono la facoltà di condurla meco; io sono ridotto nel duro stato di desiderare una persona proba, dabbene, generosa, che me ne tenesse conto... le usasse i riguardi che merita... Se questo mi riuscisse, mi sentirei meno desolato...