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mento non sarebbe passato senza biasimo, e però l’apertura del giudizio fu stabilita per la entrante settimana.

Certo non erano di oro i fili che in cotesto periodo di tempo la Parca filava per Curio, ma per Fadibonni li filava di ferro arroventato. Nel cuore e nel cervello di lui perpetua si alternava la vicenda del caldo e del freddo. In mezzo all’allegria del convito, alla festività del conversare, nel vortice armonioso delle danze di un tratto una caldana di piombo strutto gl’inondava tutta la persona; una grandine di numeri 600 gli trafiggeva le pupille, traballava per cadere, e sarebbe caduto di certo, se altri sottentrando non lo avesse retto: questo poi non veniva da rimorso, bensì dalla paura che il pagherò si rinvenisse.

Il tempo, galantuomo vero, e, per giudizio mio, unico al mondo, si accosta con passo misurato al giorno del dibattimento e le angoscio del Fadibonni si fanno più atroci, mentre Curio, sovvenuto dalla coscienza netta, si rassegna a un destino ch’ei non può mutare: erat in fatis mala morte mori, come si legge sul tumulo di Giulia Alpinula, figlia infelice di padre infelicissimo.

Il Fadibonni giace, secondo il suo costume, voltandosi fastidioso ora da un lato ed ora dall’altro; spesso col lenzuolo si asciuga la faccia e il collo grondanti sudore, e forte soffiando spinge fuori il