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capitolo xvii. | 227 |
— Scusi, signor custode, mi sembra, anzi so di certo che il direttore qui dentro non ci ha che fare; scusi una seconda volta, o in questo foglio non si citano a fine che io li conosca diversi articoli del codice penale? Ora, caro lei, se qui si citano questi articoli in numero, lei è per insegnarmi che io ho diritto di saperne la sostanza...
— E li cita davvero?
— Per la vita dei miei figliuoli, li cita, e poi guardi, si certifichi da se.
Il custode cavò di tasca gli occhiali e li lesse (dacchè si ha da sapere che il custode fosse un vecchio dragone dell’antico regno d’Italia, prima ridotto a can mastino a nome della gloria, ed ora a can da pagliaio in nome della sicurezza pubblica). Dopo avere letto e ponderato, conchiuse:
— Parrebbe anche a me; eccolo servito; e trattosi il codice di tasca lo porse a Zaccaria.
— Come! questi esclamò, in tasca, caro lei, porta il codice?
— Tre cose ho portato sempre addosso: la medaglia di san Venanzio per liberarmi dalle cascate basse, il codice per preservarmi dalle cascate alte e la cabala del Chiaravalle, onore e gloria di Milano, da non temere confronto con sant’Ambrogio nè con san Carlo: se non mi fossi un po’ istruito leggendo la cabala, sarei rimasto ignorante come quando abbandonai la vanga; ma, caro lei, così non