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capitolo xvii. 213


— Oh! quanto a questo poi, eccellenza.

— Di’ pur su, Giorgio, parla franco.

— Ecco, perchè quando cotesta signora viene a trovarla, mi pare che il suo sembiante faccia pasqua di rose.

— Ah! dunque tu mi osservi il viso? E da questo tu tiri a indovinare lo stato dell’animo mio?

— Il viso e qualche altra cosa, e non tiro mica a indovinare, ma leggo proprio espresso quando la fortuna le dà la regina di cuori, ovvero il fante di picche.

— Giorgio, quanti ne abbiamo del mese oggi?

— Eccellenza, quattordici.

— E il tuo salario tira, mi pare, quaranta lire il mese?

— Giusto, più le mance, tavola e livrea.

— Giorgio, eccoti quaranta lire, e tienti per avvisato che, da questo giorno in poi, tu non istai più al mio servizio: stasera fa’ che io non ti trovi in casa.

— Dio! Dio! Che ho commesso di male? Povero me, sono rovinato!

— Giorgio, prendi qua questi due biglietti di banca; insieme fanno mille lire; esse ti basteranno per le spese prima di trovarti un nuovo servizio; io medesimo procurerò allogarti altrove; ma con me non puoi stare assolutamente.

— Dopo tonti anni, ahimè!