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capitolo xvii. | 209 |
gola. Rammenta che io mi sono fìtto in questo ginepraio per vendicare te, tuo padre ed anche me: ricordati che io ci vo di male gambe, e solo che voi accenniate di lasciarmi sopra le secche di Barberia, io butto a monte ogni cosa; qui adesso si fa del resto, — o palle o santo... — E poi, ripreso fiato, con suono che teneva del rimbrotto e del lamento, continua più infervorito che mai: — fin qui io credei che tu avessi sposato, o Bianca, non solo le mie gioie, ma i miei dolori altresì, sovvenuto a portare la mia croce nel mondo, a uscire di angustie, ad ammannirci uno splendido avvenire, a ritornare in fiore, a rimettere su casa alla grande, con vettura, diamanti, palco al teatro, veglie...
— Eh! via, smetti una volta da predicare, che non siamo in quaresima; calmati, marito mio, e vivi tranquillo, che lo aiuto della tua moglie non ti verrà mai meno. Or fa’ di stendere un bocconcino d’istanza, affinchè S. E. voglia usarmi la cortesia di ricevermi in udienza particolare, perchè, vedi, presentarmi in combutta con la moltitudine mi uggisce fino alla morte; se la cosa urge, tu chiedila per domani a mezzogiorno, bene intesi, al palazzo del ministero; tu stesso la porterai quando ti rendi all’ufficio alla solita ora. Da parte mia fo conto levarmi per tempo e andarmi a confessare; se la beata Vergine mi ispira, anche a comunicarmi, affinchè Dio mi faccia