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capitolo xvii. 187


più severi vollero mettersi da parte, come quelli che andando convinti la monarchia non potere vivere se non di sangue della libertà, pure aborrivano, per compiacere ai propri concetti, mettere a subbuglio l’ordine pubblico; così la monarchia non avversata avrebbe potuto fare le sue prove seguendo il corso delle vicende umane. Colpa o fortuna (ma si reputò colpa) in breve parve la prova fatta; la monarchia giudicata; opera perniciosa patirla; peggio aiutarla. Ecco, affermarono i repubblicani, per maligna virtù della monarchia la Italia annega dentro un pantano- di viltà due cotanti più funesta delle vecchie e molteplici tirannidi: di libertà non parliamo, e nè di senno amministrativo, e di virtù militare, nè di tutto quello onde un popolo fiorisce in casa e sale in fama fuori, e conchiusero rispetto alla monarchia a mo’ di Catone Seniore in odio a Cartagine: Monarchia delenda est. Però, ripigliando le armi contro la monarchia, i repubblicani non si son o trovati d’accordo sul modo di combatterla non ci cadde screzio, ma nè anche vi ha concerto: vecchi taluni, molti i giovani, e ogni dì crescenti. I primi, secondochè la esperienza li persuade, assai si ripromettono dal tempo, che matura i frutti della repubblica tanto al sole della libertà, quanto col fracidume dei regali strami; gli altri scalpitano impazienti, di nulla si fidano che non sia taglio di spada e di niente si compiacciono se non sia scerpato di