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continuo torcere della bocca, che peggio non poteva fare se avesse mangiato fette di limone, si chiariva com’egli ci patisse più di noi; all’ultimo non potemmo più stare al canapo, e il Generale di punto in bianco ordinò andassimo a ripigliare le posizioni abbandonate, cacciassimo via il nemico da Montesuello. Gli austriaci ci attesero a pie fermo, ed a ragione, che chi sta bene non si ha da movere, ma, appena ci scorsero alla lontana, presero a bersagliarci dalle trincee di Sant’Antonio. Che cosa potevamo opporre noi? I migliori alleati dei nostri nemici erano i nostri schioppi; oltre alla meschina portata, nello spararli correvamo il rischio di ammazzarci da noi, così li provavamo logori ed arrugginiti. Per maggiore disdetta ecco annuvolarsi il cielo, e fra lampi e tuoni rovesciare giù acqua a catinelle. Dunque, mano alla baionetta e addosso. Pareva che la morte bacchiasse le noci; ma invece di noci erano giovani prestanti e belli ed italiani tutti: ad ogni passo giù un morto, od un ferito; ma dai dai, sopra il nemico ci siamo, e la superiorità delle armi ora non gli giova; primo moto di lui, la fuga, indi a poco, infervorato dagli ufficiali, volta faccia e ripiglia le offese: cozzavamo peggio dei montoni, un po’ indietreggiando essi, un po’ noi; alfine, noi altri chiusi e stretti in un gomitolo ci avventammo, e lo incalzammo a pie del Montesuello. Molto sangue grondava la nostra persona, ma più