lunga pezza ammanniti, bene poterono renderci sanguinosa la vittoria, non impedircela: sgarrammo la puntaglia ed inseguimmo fino a Storo il nemico, con la baionetta nelle reni. Qui accadde un fatto degnissimo di poema e di storia, e fu, che certo capitano austriaco sfidò a singolare tenzone il tenente Cella friulano: entrambi valorosi davvero, e l’uno competente all’altro; però o al maggior perizia, o piuttosto la fortuna sovvenisse il tenente, fatto sta che il capitano, rilevate diciassette ferite, si ebbe a rendere: finche durò il duello cessammo di tirare da una parte e dall’altra; e il vincitore con parole blande consolò il vinto, che a questo modo deve costumare chiunque abbia voglia che la vittoria gli frutti lode e non biasimo. Con tali presagi e con tali successi il capo ci fumava come un camino, e il terreno ci scottava sotto i piedi impazienti di sosta: stavamo per metterci in marcia su Storo, valicando il Chiese, quando il capitano La Marmora ci arrandellò tra capo e collo il telegramma: «Disastro irreparabile! (Coprite Brescia.» Ci parve che ci tagliassero i garretti: mogi mogi, scorati rifacemmo i passi; parevamo tanti fratelli della Misericordia che tornassero da associare un morto. Fermi a Lonato, a contemplare gli austriaci imperversanti senza sospetto per la valle del Chiese, noi ci mordevamo le mani; il Garibaldi pareva in vista una statua di marmo; chi gli era vicino, dal