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capitolo xiv. | 395 |
dolore; onde le donne si sentirono alquanto sollevate.
Ma il di veniente, mentre Arria, Isabella ed Eufrosina alla medesima ora dimoravano nello stesso atteggiamento del giorno innanzi, ecco Arria prese a battere le palpebre presto presto, come l’uccello l’ale quando lo punge amore di tornare al nido; strinse le mani, aggrinzò la pelle negli angoli della bocca, un nervo le saltellò, le guizzò due volte o tre in mezzo alla sinistra guancia, e dalla gola a stento le uscì un singhiozzo: pianse da un occhio solo, una lacrima sola, l’ultima.
Arria era cessata. Al cascare delle foglie ella cadde, foglia pure essa, troppo presto seccata sull’albero della vita. Isabella per questa volta non levò ne anche gli occhi al cielo in atto di preghiera di minaccia; gli torse obliqui, e facendo con la mano destra l’atto di cui si stacchi qualche cosa che gli dia molestia, borbogliò come mordendo le parole:
— Va’ via, aspide di speranza... fuori del mio cuore... intanto che aspetto i vivi, mi tocca a seppellire i morti!
Il dottor Taberni, commosso alla vista di tanta miseria, volle profferire soccorso, ma tante volte avendolo fatto invano, adesso si peritava; pure, vinto ogni ritegno, ci si provò, ma Isabella gli prendeva le mani e se le portava al petto e gli diceva: — Io non ho più lacrime.... poca fiducia pongo nella pre-