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capitolo xiv. 393


bera sugli occhi ottenebrati, quasi in testimonio della pietosa illusione della sorella.

Isabella poi null’altro potè che increspare le labbra, come costuma il fanciullo quando fa greppo, non lasciando distinguere se fosse per piangere ovvero per ridere; ma Arria, avendo notato gli atti delle donne, accendendosi nel presagio della sua fede, con maggior lena continuò.

— Eufrosina, in verità io ti dico che tu vedrai il sorriso del bimbo che primo accosterai al tuo seno per nutrirlo... Ah, tu tentenni il capo? Non ci vuoi credere? Ebbene, che vuoi tu scommettere meco che Dio ti farà questa grazia? Tu mi hai a promettere che se quanto ti predico avviene, tu deporrai una ghirlanda di fiori sopra la mia fossa... bada, veh! odorosi li voglio... le semprevivo io non posso soffrire... è vero che non muoiono mai, ma è vero altresì che ne manco paiono aver vissuto mai, e le tombe si allietano se tu le ornerai con un simulacro, e sia pur breve, di vita, non aggiungendo simboli di morte là dove la morte impera nella pienezza della sua desolata dominazione... dunque, intendiamoci bene, sia una corona di rose... od anco di gelsomini o di giunchiglie, io mi contento... me lo prometti? Io lo tengo per negozio conchiuso... Ed ora perchè piangi? Vedi! i singhiozzi ti levano la parola, e tu non puoi rispondere: ebbene, io risponderò per te: Arria, sorella, io ti giuro che