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capitolo xiv. 377


quale Eufrosina aggiunse il suo per consenso di dolore. A quale stato si fosse ridotta Isabella ogni uomo può facilmente immaginare; Arria poi era uno scheletro; tisica senza rimedio. Così la pietà dei gesuiti restituiva la figliuola alla madre. Arrogi che ad Arria aveva messo paura anco Eufrosina, la quale, smaniante a sua posta di contemplare Arria, le cacciò addosso stralunate le pupille come due punte di stile, per la quale cosa questa, abbracciando più stretto il collo alla madre le nascose il volto nel seno interrogando a voce bassa:

— Mamma, cotesta donna chi è? Perchè mi guarda così truce? Che cosa le ho fatto?

E l’altra le bisbigliava negli orecchi:

— Ah! figlia mia, ella è tua sorella, promessa sposa di Curzio, e se ti guarda a quel modo, compatiscila, perchè la poverina è cieca.

Il dottore Taberni, sempre pronto, accorse a visitare Arria; egli conobbe ad un tratto la gravità del male, e gli parve debito non celarlo alla madre; la quale, pure a malincuore persuadendosene, preso per un braccio il dottore, e fissandolo dentro gli occhi, lo interrogò:

— Dunque proprio... proprio non ci è più speranza alcuna?

— Alcuna.

— Dunque, che resta a fare?