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capitolo xiv. 349


la quale mi passò fulminando dallato mentre io mi recava al Ricovero, lei essere stata avvertita della mia venuta; — come dalla lunga dimora a farla aspettare alla porta prima d’introdurla dentro argomentava l’apparecchio forse di ambedue le lettere; per certo della seconda. La priora sempre pacata mi rispose: cotesti essere giudizi temerari, badassi bene che un giorno avrei dovuto renderne conto a Dio e come severo! Forse il dovere suo e la dignità del Ricovero imporle il rifiuto di qualunque discolpa alle accuse calunniose; pure per chiarirmi non della sua lealtà, bensì della mia ingiustizia, frugassi a piacere mio il Ricovero, lo rovistassi a bell’agio dalle soffitte alle cantine, mi sincerassi pienamente. — Compresi allora inutile ogni ricerca; ormai l’uccello era volato altrove. La priora, visto l’affanno che mi faceva tremare come vetta, mi si accostava carezzevole profferendomi acqua mescolata con elisirvite, aggiungendo non so che parolette susurrate per modo di conforto. Respinsi da me la donna ed il bicchiere, esclamando: — Qui tutto è veleno! Dio, ti piglio in testimonio che io consacro la mia vita alla ricerca della mia figlia, e mai non mi fermerò fintantochè non l’abbia ritrovata. Ma voi, dite, che siete donna e dovreste sapere amore e dolore di madre che sia, perchè congiurate contro di me? Perchè vi unite con gente iniqua a perseguitarmi? Io non vi offesi