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capitolo xiv. 329


Marcello mareggiava in tale stato, che dormendo gli pareva vegliare, e dormire quando vegliava; però mentr’era desto eleggeva un soggetto speciale di tribolazione, e meditando sopra quello sentiva come forarsi il cervello dal trapano del marmista; ma nella dormi-veglia le angosce gli giravano e rigiravano intorno al cranio, dandogli lo spasimo del taglio della sgorbia del torniaio.

Isabella schiuse piano l’uscio e si pose sopra la soglia a contemplare quel capo da lei caramente diletto nel tempo felice, e adesso nello infortunio due cotanti più; poi accostatasi in punta di piedi lieve sfiorò con un bacio il desolato. Egli però era talmente indolenzito, che anche un bacio lo trafiggeva acuto come un ago; quindi cessò di un tratto da mormorare i nomi di Arria, di Eponina, di Omobono, di Curio e di Fabrizio, com’egli senza intromissione costumava a modo dei devoti, quando mulinano il turbinio del rosario; e aperti gli occhi belò:

— Mi hai riportato le mie colombe al nido? Isabella, côlta alla sprovvista, non si potè reprimere da rispondergli con impeto:

— Ah! Marcello, Marcello! La morte rende almeno i cadaveri, ma i preti non rendono mai nulla.

— Come ci entra la morte? Come entra la morte qui?

E siccome Isabella, accortasi del fallo, metteva