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capitolo viii. | 257 |
tati del centro non l’avrebbero ceduta di un pelo
ai tappi di sughero; e nonostante ciò, un giorno,
essi si trovarono come Ercole al bivio: ecco l’autorità
si parava loro biforcuta davanti in sacerdotale ed in
monarchica, una coll’aspersorio in mano, l’altra con
lo scettro; quella col laveggio del triregno in capo,
questa con la cazzeruola del berretto Ricotti: che
pesci pigliare? Tolsero esempio dal sole: se anche
questo ministro maggiore della natura talvolta si
ecclissa, tanto più potevano ecclissarsi essi; però,
nei voti ancipiti, non comparvero alla Camera, e
così, piacendo a Corte, non dispiacquero alla sagrestia:
ben veduti da tutti, promossi dai giudici, lavoriti
dai preti, delizia dei segretari, partecipi di
tutte le commissioni e le inchieste, più del matto
dei tarocchi ch’entra in tutte le verzicole, sentendo
come nelle alte sfere, la scissura fra la potestà
temporale e la spirituale si lamentasse, si adoperarono
lodevolmente, non meno che fruttuosamente
a farla cessare.
La Corte! Ecco uno dopo l’altro comparire tre giudici. O perchè tre? Una volta, che il Tribunale dei giurati abbia chiarito l’accusato colpevole del delitto che gli venne apposto, poco ci vuole ad aprire il volume della legge e riscontrare quale pena ella gli assegni. Un solo giudice avrebbe a bastare. Io raccomando questa economia, non per