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140 | il secolo che muore |
certo cch’ei non avesse amato mai, e lei destinavano i cieli a percuotere la roccia, donde sarebbero scaturite le linfe dolcissime dello amore. Ci era da ammattirne di giubbilo! Ma intanto? Intanto il giovane non la guardava neppure, o sia che non l’avesse scorta o, scorta, non l’avesse impressionato; non importa, ella di sè fidente non se ne curava, dicendo nel suo segreto
- «Aspetto il mio astro!»
Nè l’astro si fece aspettare. Poichè ebbero compite varie guise di ballo, e furonsi confortati di cibi e di bevande, e levati fino al cielo, e un poco più su, i classici pasticci della marchesa Teresa, ecco questa signora dabbene di mi tratto scappar fuori a dire.
— Orsù, a Tersicore sagrificammo abbastanza; adesso tocca alle altre sorelle, che potrebbero averselo a male: per dare il buono esempio comincierò a canticchiare qualche cosuccia io, che se principiaste voi a me non basterebbe più l’animo per farmi sentire.
La marchesa si era data attorno per raccogliere al suo ritorno dame, damigelle e cavalieri che godessero fama di valorosi nelle arti del canto e del suono, non meno che artisti di professione e taluni dei più celebri cantanti si trovassero allora nei teatri di città. Ella, come promise, aperse il canto con una barcarola di facile esecuzione; suo cavallo di battaglia; la voce le usciva un po’ tremula, talvolta per paura della odiata stecca l’abbassò così che