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capitolo iv. 129


alle tempie; se le avesse sciolte le avrebbero ventilato dietro le spalle come ale di angiolo, tanto erano copiose e dorate. Sotto le palpebre sempre mobili1 scintillavano gli occhi, non azzurri, non neri, bensì di un colore strano, grigi come ferro troncato, composti nelle pupille di cerchi concentrici, ognuno dei quali mandava il suo raggio, donde riuniti in fascio prorompeva un getto di luce elettrica da rassomigliarsi a quello che emana a volta a volta dagli specchi giranti dei fari. Il contorno del volto, alquanto depresso sulle guancie, glielo faceva comparire piuttosto lungo che no; bianca, non candida2 della bianchezza dell’alabastro, del continuo tinta, secondo le impressioni che le venivano di fuori o dei pensieri che le turbinavano dentro, di tutte le più soavi sfumature dello amaranto. La forza straordinaria dei muscoli dei suoi labbri non consentiva ad Eponina atteggiarli al sorriso; s’ella (e ciò accadeva di rado) li apriva all’allegrezza, dava in ghigni strepitosi a modo di baccante, e se alla favella, ovvero al canto, era una Musa.

Il re poeta scrisse che il firmamento racconta la gloria di Dio, ed ha scritto bene; così del pari il Genio, o vuoi l’altissimo Intelletto, manifesta la

  1. Fu questo un attributo di Venere, e n’ebbe nome, che Esiodo ricorda ελικσβλέφαρος.
  2. A chi preme conoscere qual diversità sia fra bianchezza e candidezza, lo può vedere nel Firen. Di., Della bellezza delle donne.