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capitolo iv. 127


nulla; e che o repugnanti o nolenti, ci tocca a parlare, di nuovo parlare, e sempre parlare di donne. Fato dei fati è la donna!

Dunque io vi parlerò di Eponina, la stupenda fanciulla; perchè così l’avesse chiamata Orazio, tu se ne hai vaghezza potrai riscontrarlo nel paragrafo XXI dei Ragionamenti di Amore del buon Plutarco, e ti conforto a farlo, imperciocchè tu leggerai una pietosissima, non menochè mirabile storia. Ora io dovendo mettere parole di Eponina, vado incerto se deva o no descriverne il sembiante: la critica con molesto ronzio mi bifonchia nell’orecchio destro: «la bellezza della eroina di un libro, già si sa, la è rima obbligata, e siccome gli scrittori s’incaponiscono a dimostrartelo, per filo e per segno, così condannano il lettore al supplizio di udirne una descrizione a ritaglio, dalla quale, raccolta insieme, tu non troverai, per quanto tu ti ci arrabatti sopra, modo di formarti, neppure alla lontana, una idea di cotesta bellezza. Che se, per un impossibile, su cotesto postille tu giungessi a disegnare un viso, tu li comporresti tutti eguali come le ciliege che tu cogliessi dal medesimo albero.»

La critica, a senso mio, se ne piglia troppo, e quello che dice non è vero niente: anco i pittori, quando ritraggono bei volti di donna, hanno a dipingere sempre e nasi, e occhi, e bocche, e l’altro