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capitolo iii. 111


sentire un po’ che novità fosse cotesta; il cameriere disse che forse lo zio aveva preso a sonnecchiare sul mattino, come qualche volta gli veniva fatto, onde egli si era rimasto da sturbarlo; tuttavia, lo indugio pigliando vizio, Marcello gli commise che aprisse senza rispetto la camera e domandasse allo zio se di alcuna cosa abbisognasse. Andò il servo, ma pari al corvo della Bibbia non ricomparve; allora Marcello, agitato da indistinta o pure pungente sollecitudine, s’incamminò con passi precipitosi alla camera del dilettissimo zio.

Ahimè! spettacolo di pietà o di orrore. Orazio, colpito nella notte da accidente apopletico, giaceva morto nel letto. Mi passo di narrare la desolazione della famiglia, massime quella di Marcello, il quale per la morte dello zio senti perduta molta parte di sè. Trasportato semivivo sopra il suo letto, quivi rimase per lunghi giorni in balia del delirio; temevano non rinvenisse; infine per le cure della moglie e per le carezze dei figli, mitigato alquanto lo spasimo, ebbe la consolazione delle lacrime. Durò un pezzo a vivere come cosa balorda, improvvido di sè e di altrui: all’ultimo riprese gli spiriti, non tanto però che altri non si accorgesse l’anima di cotesto uomo dabbene essere rimasta quasi percossa da parziale paralisia.

Quanto ad Omobono, allorchè seppe la morte di Orazio, si strinse a dire che era stata una morte economica, da vero padre di famiglia.