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preso i fanciulli a far vezzi ai loro maggiori, risa alternando e discorsi, correndosi dietro, e perseguitati troppo da vicino riparandosi in grembo ai genitori ed ai nonni.

Eccetto il maggiore, il quale, come sappiamo, fu chiamato Omobono, agli altri Orazio aveva imposto nome romano; dalle eroine e dagli eroi greci si astenne, perchè egli diceva sentirsi più consanguineo alla razza latina che alla greca, ma che cosa intendesse significare con simile proposizione io non saprei: fatto sta, che le femmine egli appellò Arria ed Eponina, gli altri due maschi Curio e Fabrizio.

Giunti a quella parte del convito dove per usanza vecchia si propina, Marcello contemplando Eponina seduta sopra le ginocchia di Orazio, abbracciarlo intorno al collo e consolare il vecchio con frequenti baci, Arria in grembo alla consorte Isabella, Omobono e Fabrizio posti uno a destra, l’altro a sinistra, stretti a mezza vita dal suocero, di cui la faccia era quasi diventata di uomo giusto, sorreggendosi sopra Curio, che gli sedeva al fianco, si alzò e levato in alto il bicchiere pieno di vino disse:

— Alla prosperità della mia famiglia, cominciando dai nostri padri fino ai nostri figliuoli: possano durare per tutta la loro vita felici, come io mi sento in questo punto felice...

Levarono tutti i bicchieri e risposero al brindisi amoroso; solo uno rimase sopra la tavola, e fu quello