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perfidissima femmina? ancor osi

parlar meco di fede? I’ vo’ condurti
ne la piú spaventevole caverna
di questo monte, ove non giunga mai
raggio di sol, non che vestigio umano.
Del resto non ti parlo; il sentirai.
Farò con mio diletto e con tuo scorno
quello strazio di te, che meritasti.
Corisca. Puoi tu dunque, crudele, a questa chioma
che ti legò giá il core, a questo volto
che fu giá il tuo diletto, a questa un tempo
piú de la vita tua cara Corisca,
per cui giuravi che ti fora stato
anco dolce il morire, a questa puoi
soffrir di far oltraggio? Oh cielo! oh sorte!
In cui pos’io speranza? a cui debb’io
creder mai piú, meschina?
Satiro. Ah, scelerata!
pensi ancor d’ingannarmi? ancor mi tenti
con le lusinghe tue, con le tue frodi?
Corisca. Deh, Satiro gentil, non far piú strazio
di chi t’adora. Oimè! non se’giá fèra,
non hai giá il cor di marmo o di macigno.
Eccomi a’ piedi tuoi. Se mai t’offesi,
idolo del mio cor, perdon ti cheggio.
Per queste nerborute e sovraumane
tue ginocchia ch’abbraccio, a cui m’inchino;
per quello amor che mi portasti un tempo;
per quella soavissima dolcezza
che trar solevi giá dagli occhi miei,
che tue stelle chiamavi, or son duo fonti;
per queste amare lagrime, ti prego,
abbi pietá di me, lasciami ornai.
Satiro. (La perfida m’ha mosso; e, s’io credessi
solo a l’affetto, a fé che sarei vinto!)
Ma insomma io non ti credo. Tu se’ troppo