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Uranio. Or chi dirá d’esser felice in terra,

se tanto a la virtú nóce l’invidia?
Carino. Uranio mio, se da quel di, che meco
passò la musa mia d’Elide in Argo,
avessi avuto di cantar tant’agio.
quanta cagion di lagrimar sempr’ebbi,
con si sublime stil forse cantato
avrei del mio signor Tarmi e gli onori,
ch’or non avria de la meonia tromba
da invidiar Achille; e la mia patria,
madre di cigni sfortunati, andrebbe
giá per me cinta del secondo alloro.
Ma oggi è fatta (oh secolo inumano!)
l’arte del poetar troppo infelice.
Lieto nido, ésca dolce, aura cortese
bramano i cigni; e non si va in Parnaso
con le cure mordaci. E chi pur garre
sempre col suo destino e col disagio,
vien roco e perde il canto e la favella.
Ma tempo è giá di ricercar Mirtillo.
Ben che si nuove e si cangiate i’ trovi,
da quel ch’esser solean, queste contrade,
ché ’n esse a pena i’ riconosco Arcadia,
con tutto ciò vien’ lietamente, Uranio.
Scorta non manca a peregrin c’ha lingua.
Ma forse è ben ch’ai piú vicino ostello,
poi che se’ stanco, a riposar ti resti.

SCENA SECONDA

Titiro. Che piangerò di te prima, mia figlia,

la vita e l’onestate?

Piangerò l’onestate,
ché di padre mortai se’ tu ben nata,