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56 | parte prima — cap. viii — la parola ecc. |
(fatta la contrazione di ao in o); fé per féce, dié per diède, stiè per stètte; e diversi imperativi, come guà per guárda; vé’ per védi; tò’ per tògli, ecc. Tanto le une che le altre forme sono usate anch’oggi comunemente, eccetto súso e giúso concesse soltanto al verso. Sono pure esclusivamente poetiche le apocopi andáro per andárono, potéro per potérono, udíro per udírono, e le altre somiglianti.
§ 21. La parola finita in vocale accentata sviluppò alla sua volta, nelle origini della lingua, un e finale quasi per dare sfogo e riposo alla forza dell’accento, essendo l’orecchio italiano poco disposto a sopportare l’accento sull’ultima. Questa aggiunta di un e, detta dai grammatici paragoge, si trova quasi soltanto in parole antiquate e specialmente in forme verbali cadute affatto in disuso: p. es. èe per è; háe, fáe per ha e fa; diráe, saráe per dirà, sarà; amòe, udíe per amò e udì, súe e giúe per su e giù.
Anticamente per torre l’iato si aggiunse talvolta la sillaba ne P. es. ène per è; fáne per fa; e dallo stesso principio nasce il modo plebeo, oggi usato, puòle (invece di puòne) per può.