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note | xxv |
narle come modi poetici od eccezioni. Il che non può farsi senza stabilire un uso parlato e scritto insieme, quale si ha, più intero che altrove, a Firenze.
7 Non si creda per queste parole, che io non conosca i pericoli a’ quali può condurre una torta applicazione della teoria del Manzoni, come sarebbero quelli di togliere ogni varietà alla nostra lingua, di empierla di forme plebee e scorrette, di spogliarla di tante maniere nobili, gentili, eleganti, di sconoscere insomma l’autorità dei grandi scrittori. Io veggo che lo stesso Manzoni nelle sue opere, e specialmente nella maggiore, ha interpetrato quasi sempre con quella moderazione che si doveva, le proprie teorie; e lo mostra assai bene il prof. D’Ovidio nel suo opuscolo sulla lingua del Manzoni. Dico ancora che altra cosa è lingua e grammatica, ed altro è stile: la prima, come avverte il Bonghi nelle sue Lettere (Perchè la letteratura, ecc.) dev’esser fissa e determinata quanto si può meglio; il secondo dev’esser vario e tutto individuale; e questa varietà può giovarsi anche delle eccezioni grammaticali e de’ modi un po’ antiquati.
8 Dico questo, perchè in parecchie cose, dove l’uso comune era incerto e la ragione stessa ammetteva diverse opinioni, ho seguito quella via che mi pareva migliore e a cui mi traeva il consiglio di dotti amici; come, per esempio, in certe questioni d’ortografia (l’uso dell’j, il cie e i due ii ne’ plurali), senza farmi schiavo della pronunzia, che contraddice troppo spesso all’origine e formazione delle parole. Dove poi la lingua possiede realmente due forme sinonime, usate ambedue con uguale o quasi uguale frequenza, non ho potuto esimermi dal registrarle anch’io entrambe, senza determinare quale fosse da preferirsi, come p. es. védo e véggo; fo e fáccio; credéva, credévo; visto, vedùto, ecc. E qui debbo esprimere molte grazie al prof. Isidoro Del Lungo, accademico della Crusca, che più volte mi ha dato lume intorno al parlare di Firenze.
9 Dall’uso de’ moderni grammatici differisco però in una cosa assai importante, cioè nell’avere adottato le detlinazioni de’ nomi, e ciò per la ragione che, quanto a diversità fra singolare e plurale, esse si trovano realmente nella nostra lingua, e che possono riuscire di molta chiarezza e comodità a chi studia questa per passare poi al latino. Ho per altro ripudiato anch’io i casi de’ nomi, perchè di essi manca veramente la lingua italiana.