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CAPITOLO XXXVI

Visita e colloquio, i peggiori ch’io avessi alla vita mia.

Uscito dal letto il dí sedici di quel gennaio assai per tempo, richiamai alla mente ciò che la sera aveva disposto di fare e di esibire al Gratarol guidato da me dall’amico Maffei, e fui scempiato a segno di trovar buoni i miei ideati apparecchi anche a mente riposata e di non sospettare che il Gratarol potesse trovarli ridicoli e rifiutabili come spazzature.

Non v’era modo ch’io potessi immaginarmi ch’egli venisse a visitar me sulla buona fede, scortato da un degno amico, sotto il manto dell’amicizia, col piú canino oscuro livore nelle viscere contro la persona mia.

Non mi passava per la mente ch’egli, opponitore superbo, ostinato e instancabile a’ voleri di tre de’ piú tremendi tribunali che avevano rispinta la sua follia, venisse a pretendere me vittima delle sue temerarie imbecillitá contro al possibile, massime avendo io prevenuto il Maffei, mediatore alla visita ed al colloquio, perché non mi fosse fatta richiesta di cosa ch’era omai resa ben lontana dall’arbitrio mio.

Qual cristiano, qual onest’uomo avrebbe pensato in quel caso ch’egli, chiedente favore d’aver meco un colloquio col mezzo d’un amico onorato nella mia propria casa, fosse in grado di doversi costringere a prendere un’«aria d’indifferenza», e nell’incontro cordiale che io feci a lui e al Maffei al loro arrivo nelle mie pareti, chi avrebbe creduto ch’egli dicesse nel livido animo suo quel verso della mia commedia:

Il Catone si avanza: scatoniamolo,

siccome egli riferisce senza vergogna nelle frenesie della sua fracida penna?