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parte seconda - capitolo xxxii 61

spezialmente nella platea calcatissima, tardassero a impazientarsi sino alla metá dell’ultimo atto; né è da stupire che molti nella platea, maschi e femmine, cacciati dalla stanchezza, dal caldo, dal tedio e forse da delle necessitá naturali, cercando inutilmente d’uscire dal teatro, urtassero, risvegliassero de’ contrasti, de’ tumulti ed un romorio che impedisse l’udire e disturbasse il resto de’ spettatori pazienti.

Non è pure nemmeno incredibile che i partigiani degli altri teatri, sempre pronti e mal disposti emissari alle prime rappresentazioni d’opere nuove, accrescessero il fragore lor favorevole; e che alcuni discreti, ragionevoli, d’animo ben costrutto e sensibile, nauseati alla vista di ciò ch’io fui e sono il primo a condannare, non appoggiassero al tumulto suscitato, per troncare la riproduzione e le repliche di quella commedia.

I riflessi miei non servano a far credere ch’io voglia difendere come buona un’opera da me prima di tutti sprezzata e considerata intimamente cattiva. Ella tale sará trovata nella pubblicazione a stampa ch’io farò d’essa unita a queste Memorie, a solo fine di far conoscere che soltanto un cervello acceso, inconsiderato e violente, per una troppo facile credulitá, colle sue mosse imprudenti, le sue collere senza argomento e le sue detrazioni pericolose, poteva farla degenerare in una satira personale.

Molte opere sceniche cattive hanno spesso un buon evento nel teatro. Per la stessa ragione le mie Droghe d’amore potevano averlo; ma veramente mal mio grado, con dolore ed a forza devo confessare che della irruzione cagionata da quelle non dovrei aver l’obbligo che alle imprudenze del signor Gratarol, suscitate in lui dalla leggerezza maligna d’un’attrice per dare a me un dispiacere e senza riflettere alla sciagura che cagionava al di lei amico. Avemmo tutti due una grandissima dose io di dispiaceri egli di sciagure, ma sempre per le interminabili imprudenze del di lui cervello infiammato, delirante, iracondo e in vero commiserabile.

Il dramma terminò quella prima sera tra il susurro procelloso d’urla, di fischi e d’acclamazioni, ma non inteso e precipitato