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CAPITOLO XLVIII

Storia del mio secondo amore, con meno platonismi

e d’un fine piú comico del primo.

Fu in quel tempo che, occorrendo al provveditor generale il mio quartiere per collocare de’ fornimenti della sua scuderia e della rimessa che stavano sotto a’ «quartieroni», sloggiai da quello e passai ad abitare coll’amico signor Innocenzio Massimo in un casino che avevamo preso a pigione sulle mura.

Potemmo abitare quel casino per poco tempo, essendo lontano dalla corte e da’ nostri doveri delle guardie occorrenti, e perché nella stagione rigida le piogge, borea terribile e le nevi facevano quel nido impraticabile.

Il Massimo aveva conoscenza con un bottegaio e commerciante, che abitava nell’interno della cittá e che aveva una casa con molte stanze e molti agi. Quel commerciante aveva una bella moglie grassotta e fresca; e Dio mi perdoni, credo che il Massimo avesse piú amicizia colla moglie che col marito. Comunque fosse, egli ottenne a pigione in quella buona famiglia due camere, l’una per me, l’altra per lui, e distanti l’una dall’altra; anzi la convegna fu mensuale per le stanze e per la mensa comune co’ patroni, ch’era casalinga ma abbondante e di cibi scelti.

I due coniugati non avevano figli né figlie, e il commerciante aveva adottata per «figlia d’anima» una povera giovinetta per fare un’azione caritatevole e cristiana. Questa fanciulletta, che aveva appena tredici anni d’etá, pranzava e cenava con noi come figlia adottiva de’ padroni e con un contegno di somma innocenza. Ella aveva le chiome bionde, gli occhi grandi e azzurri, la guardatura soave e languida, il viso pallidetto con qualche tinta rosea incarnata. Non aveva gran polpa sull’ossa, ma la sua taglia era dritta, snella e bellissima, e la statura pendeva al grande e al maestoso.