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CAPITOLO VII

Prova che la poesia non è arte inutile, come si crede comunemente.

Convien dire che la mia debolezza per la poesia e per l’eloquenza italiana fosse grande.

Nell’armata veneta, e specialmente nella Dalmazia, erano pochi e molto cattivi gli scrittori ne’ detti generi. Scriveva e leggeva le mie fantasie da me medesimo, senza cercare quella compiacenza di cui vanno in traccia come bracchetti gli scrittori nel leggere altrui le operette loro per sentirsi lodare o adulare, ma soprattutto per seccare de’ diretani e de’ genitali, presumendo di ricreare de’ cervelli e de’ cuori.

Il signor secretario del generalato, Giovanni Colombo, che ebbe poscia un onore non disgiunto da una sciagura, raddolcita però da una magnifica pompa funebre, cioè di morire gran cancelliere della nostra repubblica serenissima, aveva qualche diletto delle belle lettere. Questo signore d’animo soave e d’indole gioviale, che aveva notizia della epidemia poetica della mia famiglia, mi stimolava a leggergli qualche cosa, e sembrava ascoltatore contento, aveva seco recata una picciola ma scelta libreria, e mi forniva cortesemente di que’ libri che a me mancavano.

I miei versi, per lo piú urbanamente satirici, e pitture discretamente vivaci di caratteri, frutti d’una pontuale osservazione filosofica sull’umano genere dell’uno e dell’altro sesso, erano palesi al signor secretario, al signor Massimo ed a me soltanto.

La cittá di Zara volle dare un segno di venerazione al nostro provveditor generale Quirini, e fu edificata per un sol giorno solenne nel prato del Forte una gran sala di legnami, addobbata di bei damaschi, e furono dispensati a molte persone de’ viglietti d’invito per radunare un’accademia, nella giornata prefissa, di prosatori e di verseggiatori.