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tanti colloqui avuti con lui in Venezia da tutti noi, nessuno si attendeva questa ricerca. Mi riconfermai nel riflesso ragazzo-filosofico, che aveva fatto.

In questa maniera egli estingueva interamente in ognuno le speranze concepite nelle visite fattegli ed accolte con tanta umanitá, prima che s’imbarcasse, e prima che vestisse le insegne generalizie.

Il maggiore della provincia, Micheli, ottima persona e assai pingue, venne ad eseguire quel comando, molto affaccendato e sudato, in gran diligenza, con un foglio ed un toccalapis.

Ognuno aombrava, borbottava e sbuffava a passare quella rassegna. Dal canto mio, ho risposto con viso ridente al signor maggiore della provincia pingue e badiale, ch’io mi chiamava Carlo Gozzi, e ch’era stato raccomandato dal patrizio Almorò Cesare Tiepolo. Tacqui il senatore e il mio zio materno, per non comparire ambizioso.

Quella dimenticanza, certamente finta, nell’E. S., che tanto increbbe agli altri, a me parve un tratto politico necessario per alcune teste fumanti de’ miei sozi, che s’erano molto vantati d’intrinsechezza col cavaliere prima del di lui imbarco.

La galera «Generalizia», col séguito d’un’altra galera detta «Conserva» e d’alcuni navili sottili armati, s’avviò nel golfo Adriatico, e sopraggiunse la notte assai buia.

Quella notte mi rimase fitta nella mente per un accidentuzzo che m’avvenne. Egli può stare nelle Memorie della mia vita, mi si può perdonare qualche indecenza ch’egli contiene, ed io lo narro soltanto per far comprendere qual asilo sia una galera per un giovinetto avvezzo alla casa paterna e appena uscito da quella.

Il luogo comune per alcune indispensabili necessitá degli uffiziali, soleva essere una panchetta balaustrata, sopra all’acqua, vicina al timone della galera.

Sperai in quella notte oscurissima di potermi ivi sgravare d’una delle sopraddette necessitá.

Trovai un ordine tremendo nella voce del timoniere, che nessuno dovesse aver l’ardire di presentare il diretano a quella