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CAPITOLO XVI

Seconde scoperte sulla mia famiglia, che atterrarono le mie speranze e la buona volontá che aveva d’essere operoso. Mia determinazione di abbandonarmi a’ miei studi primieri.


La nostra casa di villa, fabbricata all’antica e un tempo assai vasta, comoda e con una quantitá di adiacenze, era divenuta uno di que’ castellacci da me dipinti nella cenventesima sesta ottava del duodecimo canto del mio poema faceto intitolato: La Marfisa bizzarra. Gli edifizi erano stati demoliti per due terzi colla vendita de’ materiali, e pochi vestigi sussistenti abitati cantavano: «Qui fu Troia».

Apparecchiato il mio cuore a’ deplorabili addobbi e alla penuria d’agi di quel castellaccio, dalle bocche persuadenti delle mobilie della cittá, non mi curai nemmeno di esaminarlo.

Una cert’aria gioviale, allegra, di contentezza e spirante sanitá, che appariva sul viso a tutti i villeggiatori, fermò il mio sguardo alla mia giunta. Nel mezzo alle voci di giubilo de’ parenti, degli ospiti, de’ servi e de’ villici, non senza abbaiare di molti cani, smontai dal calesse col fratello.

Fui abbracciato da non so chi né da quanti, e non so quale aspetto militare, che aveva acquistato non so come, e che non aveva a far nulla con me intrinsecamente, mi faceva guardare da’ nostri villani come una cometa.

Levando gli occhi, vidi il povero padre mio tremebondo nell’alto del castellaccio, che appoggiato ad un bastone s’ingegnava di strascinarsi ad una finestra per vedermi. Quella scoperta pose in rivoluzione tutto il sangue nelle mie vene. Corsi alle scale e, salitele velocemente, entrai dove egli era, gli presi una mano, baciandogliela con v’erace trasporto filiale. Egli mi cadde sopra una spalla anche piú paralitico che non era, e non potendomi favellare per la lingua perduta, proruppe in un pianto