rance è la sola fiaba, della quale abbia scritto poco più che l’orditura, lo scenario, il canevas. E questo pure ci è rimasto in una forma insolita, in quella d’un racconto (e perciò il Gozzi lo chiama Analisi Riflessiva), in cui, oltre al sunto della rappresentazione, trovan luogo le sue chiose e via via le impressioni del pubblico, all’incirca come nelle odierne Appendici Teatrali. Nelle altre Fiabe le sole parti a soggetto sono, e non sempre, quelle delle Maschere. All’ardimento, alla licenza, alla facil vena degli attori estemporanei, alla gioconda irregolarità della Commedia dell’Arte, alle trasformazioni, ai meccanismi, e alle decorazioni di scena, che già prima di lui e del Goldoni facevano la delizia del pubblico Veneziano, a tutti questi ammennicoli di buon successo, dai quali neppure il Goldoni era riescito del tutto ed emancipare il teatro, il Gozzi ridiede vita tutt’ad un tratto, ma valendosene di cornice ad una satira feroce contro il Goldoni ed il Chiari, oggetto allora fra quel pubblico di dispareri e parteggiamenti fierissimi. Che parte ha in questo primo trionfo del Gozzi la ingenuità della fiaba popolare? Piccola davvero! Nella mente del Gozzi le trivialità di essa sono per sè medesime una parodia dei Campielli, delle Massere, delle Baruffe Chiozzote del Goldoni, ma il grosso pubblico avrà côlto ben poco di tale finezza. Se non che nel Mago Celio è raffigurato il Goldoni, nella Fata Morgana il Chiari; il Principe Tartaglia, ossia il pubblico