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xxvi prefazione.


Tornato a Venezia, in compagnia dell’amico Innocenzo Massimo, pareva che il cuore gli predicesse qualche nuovo guaio. L’aspetto della sua bella casa paterna era al di fuori sempre quello, ma batti e ribatti, nessuno apriva. Era come «picchiare ad una sepoltura.1» Finalmente una vecchia serva venne ad aprire.... Ahimè! Che interno di casa! che contrasto fra l’antico lusso e la presente ruina! I pavimenti solcati e sconnessi, le finestre coi vetri rotti, le tappezzerie stracciate e cascanti a pezzi. La galleria dei quadri era scomparsa. I ritratti degli antenati non aveano ancora preso il volo, ma colla guardatura mesta e seguace parevano chieder ragione anche al tornato nipote di tutto quello squallore; il quale altro non era che il risultamento combinato dell’astrazione filosofica del Conte Gaspare e della «pindarica amministrazione2» della pastorella Arcade, sua moglie. Carlo e l’amico Massimo stavano lì, guardandosi l’un l’altro, come trasognati, allorchè il Conte Gaspare capitò, e mezzo tra dolente e sopra pensieri narrò al fratello che la famiglia se n’era andata nella villa del Friuli, che tra i debiti, le liti e le usure sfumavano le reliquie del patrimonio, che le sorelle, in età da marito, strillavano per la dote, che il padre era sempre paralitico e muto, che la casa era tutta a soqquadro;

  1. Memorie cit. Parte I, Cap. 15, pag. 118.
  2. Memorie cit. Parte I, Cap. 16, pag. 128.