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cxlviii prefazione.

patia dei Tedeschi pel Gozzi perdura ostinata anche fuori delle preoccupazioni di quella Scuola.1

  1. Narravami, non ha guari, l’illustre Marco Minghetti che, viaggiando nel 1848 in Germania ed in Olanda, ebbe per caso ad accompagnarsi per alcun tempo col Generale Radowitz, noto scrittore e statista, il quale, discorrendo con lui di studi italiani e tedeschi, gli assicurava che, nelle serate di Federigo Guglielmo IV (l’antecessore dell’attuale Imperatore di Germania), presenti l’Humboldt, il Savigny ed altri uomini insigni, si solevano leggere con grandissimo diletto le Fiabe del Gozzi.
    Fra gli ultimi Tedeschi, che fanno onorevole menzione del Gozzi, figurano altri due grandi nomi, il maestro e poeta, Riccardo Wagner, ed il filosofo pessimista, Arturo Schopenhauer. Il primo nella Autobiographische Skizze ed in Eine Mittheilung an meine Freunde, 1851, nei volumi 1 e 4 de’ Gesafmmelte Schriften und Dichtungen, (Leipzig, 1872) dice, fra l’altre cose, che volendo comporre un melodramma sul gusto romantico del Weber e del Marschner, prese ad imitare la Donna Serpente di Carlo Gozzi e, intitolandola le Fate, non mutò che lo scioglimento della Fiaba. È questa un’opera giovanile del Wagner, il quale so d’altronde ch’era e si mantenne sempre fervido ammiratore del Gozzi. Quanto allo Schopenhauer, il mio amico, Prof. Giacomo Barzellotti, dotto espositore delle dottrine del filosofo tedesco, mi fa notare ch’esso ne parla nel Cap. 8 dei Compimenti al Libro I della sua opera maggiore: Die Welt als Wille und Vorstellung, dove trattando della teoria del ridicolo, afferma che questo nasce da un disaccordo repentino tra una realtà qualsiasi ed il concetto, sotto cui tale realtà è richiamata. E cita in proposito la scena 3a dell’atto 4° della Zobeide, in cui Truffaldino e Brighella, dopo essersi bastonati di santa ragione, si pacificano ed applicano a sè il noto verso dell’Ariosto: O gran bontà de’ Cavalieri antiqui, con quel che segue. Nel Cap. 33 dei Compimenti al 3° libro della Opera suddetta, trattando della pazzia, lo Schopenhauer la fa consistere in una malattia della memoria. Non poter riprodursi in mente con precisione un fatto od un sentimento