retti manoscritta), e coi pochi accenni, che il Gozzi ne dà nella Prefazione, concorda, mi sembra, quanto scrive in una sua lettera del 15 Ottobre 1763: «Il Mostro Turchino, tra il volere, il non volere, gli imbarazzi, l’accidia e la rabbia è finito; ma così fiacco e scipito, che intendo non far d’esso uso alcuno. Non sono queste espressioni d’affettata modestia, ma di sincerità. Sono arrabbiatissimo colla poesia e vorrei poterla frustare. Ho preso dell’affetto a questi deserti (scrive dalla campagna) e mi sono più cari i ragli di questi asini, che il sentire a Venezia: oh che cuccagna!1» Anche l’ardito artista delle Fiabe, anche il poeta, che non dubitava di nulla, che si credeva sostenitore della verità, della tradizione, della cultura e della morale, il poeta, che avea visto fuggirsi dinanzi sgominati gli avversari ed a suoi piedi il pubblico, il quale mutava di adorazioni da un giorno all’altro con una celerità spaventosa non meno ai vinti che ai vincitori, anche questo guerrigliero fortunato era dunque assalito dalle sue ore di dubbiezze e di sgomento al pari del Goldoni, e quasi impaurito della poca giustizia de’ suoi stessi trionfi! «La riputazione, scrive il Gozzi, in cui erano entrate le Fiabe incominciava a dispiacermi;2» e nella Fiaba del Mostro Turchino
- ↑ Archivio Veneto. Tom. III. Articolo del Sig. Conte Gaspare Gozzi, pronipote dei due poeti, intit.: Gaspare e Carlo Gozzi e la loro famiglia, pag. 277-278.
- ↑ Prefazione al Mostro Turchino.