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Marfisa è in nerbo, e la posta ritoglie;
corre come un dimon verso la Spagna
con la sua imbellettata finta moglie,
che col rosario in mano l’accompagna.
Turpin la briga a narrarci si toglie
alcune coserelle, e pur si lagna,
vedute da Marfisa, e scrive e ciancia
delle citta e castella della Francia. 40
Giugnendo la bizzarra in qualche terra,
o vuoi castello o cittá provinciale,
metteva del calesse il piede a terra,
e per gire a’ caffè metteva l’ale.
In alcun luogo, se Turpin non erra,
il caffè si bevea dallo speciale.
Basta, di quelle adunanze Marfisa
lasciò uh itinerario ben da risa. 41
In quel caffè venien certe figure
da’ paladin antichi discendenti,
abitanti in castei pien di fessure,
puntellati i canton, rotti e pendenti,
con le finestre metá di scritture,
metá di vetri avanzati dai venti,
e con porte che, chiuse, non che a’ sorci,
non impedien l’ingresso a’ cani, a’ pord. 42
Parte aveano gabban di Salonicchio,
certi spadon, certe scarpe infangate,
da ciabattin rimesso qualche spicchio,
certe calze da sprazzi indanaiate,
cappellini tignosi e come Un nicchio,
cappellon con le alacce mal puntate;
e tuttavolta ognuno avea sua scusa,
dicendo: — Oggi a Parigi questo s’usa. —