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canto decimo 239

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     Il prete, col viglietto del prelato,
Rugger fece morir quasi d’affanno:
sopra un soffá disteso s’è gettato,
dicendo: — Io vivo per maggior mio danno. —
Bradamante, che il vede addolorato,
chiede se della borsa a parlar stanno.
— Che borsa? che non borsa? dalla cella
— disse Rugger — fuggita è mia sorella.
56
     — Fuggita s’è Marfisa! Ipalca manca!
la borsa è andata! — Bradamante strilla,
si batte il viso e poi l’una e l’altr’anca,
grida a Rugger che si debba seguilla.
Disse Rugger: — Quando sarete stanca,
terminerete di suonar la squilla:
la mia sciagura abbastanza mi pare,
senza far la contrada sollevare. —
57
     Ruggero se n’andava a Carlo Mano;
rimase la consorte disperata,
che, piangendo in baritono e in soprano,
ha intorno la famiglia radunata.
La tien don Guottibuossi per la mano,
e promette gran cose all’impazzata:
talor minaccia i cagnolin parecchi,
che, al pianto urlando, intruonano gli orecchi.
58
     Ruggero a Carlo Magno la sventura
narra, e soccorso al suo caso dimanda.
In traccia, di Parigi entro le mura,
l’imperatore di Marfisa manda;
ma gli è si rimbambito di natura,
che fuor che il letto e un’ottima vivanda
nulla conosce, e a Rugger dimandava
chi fosse, dieci volte, e replicava.