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230 la marfisa bizzarra

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     e reca una minestra in un piattello.
Filinor la trangugia in un baleno.
— Sentite moto a tramandare? — a quello
dice l’abate, di pietá ripieno.
Rispose Filinor: — Mi sento snello,
e fame ancora; — e si toccava il seno.
Dice l’abate al cuoco: — Hai qualche piatto?
— E’ c’è un cappon — rispose — tanto fatto.
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     — Reca il cappon. — Filinor lo mangiava
come un morsel, che non si torce un pelo.
L’abate, i frati, il cuoco, ognun gridava:
— Miracolo, miracolo del cielo! —
A bocca piena il guascon replicava:
— Aiuta Dio chi crede nel vangelo;
questo è un miracol di natura fuora:
abate santo, ho della fame ancora. —
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     Frate Piero, correndo, una pernice
reca in un tondo: Filinor la succia.
— Miracolo, miracolo! — ognun dice.
L’empio guascon col carcame si cruccia,
e chiede bere, e il cielo benedice.
Il cantiniere alla sua cella smuccia,
e spilla un vin da far andare un morto,
né certo Filinor gli fece torto.
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     Non si può dir de’ frati l’allegrezza
per il miracol nato ad evidenza.
Quel sacconaccio di scelleratezza
tutto asseconda con somma avvertenza;
e quando mostra d’essere in tristezza,
e di sentirsi ancora inappetenza,
donde rinnova il frate i crocioni,
pel guasto uni versai de’ suoi capponi.