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canto settimo 171

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     C’è Filinor guascon, che^ benché paia
un poveruomo, ha in cor de’ gran luig^ ;
e basterá ch’io mandi una ghiandaia,
che gli fo grazia a chiedergli servigi.
Credei farvi finezza, allocco, baia,
cavalier delle fogne di Parigi!
Or vo’ farvi veder come un signore
tratta le dame che gli fanno onore. —
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     Cosi detto, s’appressa al calamaio
fingendo dissegnare un suo viglietto.
Non dimandar se Terigi fu gaio
o se fu per morirsi di dispetto.
Avrebbe dato il cuore, non che il saio,
piuttosto ch’ella scriva al giovinetto:
non pensa s’ella dica bene o male,
ma l’ammazza il viglietto al suo rivale.
49
     A’ giorni suoi non fu tanto eloquente
quanto in quel punto il gabellier marchese.
Le chiedeva perdono umilemente,
giurava non aver le cose intese;
che i tremila zecchin subitamente
le avría mandati, i piú bei del paese,
e ventimila e trentamila in oro,
purch’ella non scrivesse a Filinoro.
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     Quella bizzarra, dentro a sé ridendo,
fece per molte scosse l’ostinata;
ma perché alfin Terigi va soffrendo
e cominciava faccia rassegnata,
lasciò la penna e disse: — Io mi vi arrendo,
che sono alfin di zucchero impastata.
Maledico il mio cor, che buon non sia
d’usar con chi l’offende tirannia. —