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canto settimo 167

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     — Gran crudeltá, gran cor, gran tirannia
— dicea — dell’illustrissima Marfisa!
Chi l’avria detto mai? Gesú! Maria!
a un uom com’io son fatto, in questa guisa?
per un bardasso, ch’io non so chi sia,
che fé’Parigi scoppiar dalle risa,
giugnendo di Guascogna con la rozza
e con quel suo staffiere e la carrozza!
32
     Io nella stalla ho sessanta corsieri,
svimèr, landò, carrozze, venti legni
d’intaglio e d’oro con belli origlieri,
fodere di velluti ricchi e degni.
Otto lacchè, trentacinque staffieri,
possessioni, castella e quasi regni;
e posso, per la grazia del Signore,
pisciare in letto e dir che fu sudore.
33
     Non son si brutto poi della persona,
quando un ricco vestito in dosso metto,
e quando ho una parrucca in testa buona
e un manichin di merlo che sia netto.
Io so che, quando alcuno mi ragiona,
sta sempre in riverenze e gran rispetto.
Ma che mi giovan tante belle scene,
se la Marfisa non mi vuol piú bene? —
Cosi dicendo, si metteva a urlare
come un fanciul che al culo abbia un cavallo.
Prete Gualtier lo corre a conforure,
gridando: — Voi parete un pappagallo.
Qui non vi convien piangere e gridare:
cotesto amore alfin convien lasciallo.
Di troppo offeso siete: io vi consiglio
a lacerar la scritta dal periglio.