Pagina:Gozzano - Verso la cuna del mondo.djvu/193


l'impero dei gran mogol 167


Si sale lungo il fusto eccelso, sostiamo a riposare alla terza, alla quarta veranda circolare, in marmo traforato che ci sospende nel vuoto e dà la voluttà della più acuta vertigine, e dall’alto la desolazione appare più disperata, occupa tutto l’orizzonte come un mare di lava e di scorie: si pensano veramente come eruzioni spaventose le invasioni delle orde giaina, pali, afgane, mongole che si riversarono dall’Imalaia e sovrapposero ruine a ruine sulla pianura maledetta da Dio. Poco lungi dal minareto di Ktub, fra sepolcri d’un tempo immemoriale, s’alza un obelisco che discorda con la grazia leggera e la tinta carnicina del cimelio moresco, un obelisco barbaro, tutto di ferro, elevato — dice l’iscrizione sanscrita — duemila anni fa dal Raya Dhava per celebrare con una cosa eterna la sua vittoria sulle tribù Valhihas. È alto quindici metri, fuso in un pezzo solo, documento misterioso di una civiltà spenta, quasi dimenticata e che pur possedeva i mezzi di gittare una mole di metallo che inquieterebbe la nostra industria modernissima.

Anche qui eruditi indigeni ed europei: